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IL PRINCIPIO DEL RAGIONEVOLE DUBBIO: L’ARTICOLO 533 CPP E LA RECENTE CASSAZIONE
Benché da tempo presente nel nostro ordinamento, il canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, di cui all’art. 533 del codice di procedura penale, riformato nel primo comma dalla L. 46/2006, ancora non è pienamente assimilato nel sistema processualpenalistico. Ciò è dovuto in parte alla natura intrinseca di tale principio, sicuramente proprio del common law, da cui peraltro proviene, ma che ancora richiede aggiustamenti, per lo più demandati alla Corte della legittimità; tale difficoltà senza dubbio dipende dal portato giuridico insito nella scansione logica su cui si fonda la quale, rifacendosi a un concetto per sua natura non aprioristicamente definito (derivante dalla ragionevolezza, canone generale ma anche soggettivo), necessita di approfondite elaborazioni.
Inserito in una sezione fondamentale e nevralgica del rito penale, il libro VII intitolato al Giudizio, nella parte riformata del primo comma l’articolo 533 aveva già a suo tempo registrato non poche perplessità e aperte resistenze – valgano per tutte le considerazioni complessive di Franco Cordero, uno dei più tenaci critici della riforma.
Il più recente intervento, che ha reso necessaria la rimessione avanti le Sezioni Unite della Corte Suprema, si è registrato a proposito della questione posta da una sentenza di assoluzione scaturita da un processo abbreviato non condizionato, gravata da appello della Procura e che era stata riformata in pejus, senza che la Corte territoriale avesse assunto l’esame delle persone che avevano reso dichiarazioni confluite nel fascicolo del Giudice di prime cure.
Non era in discussione il principio secondo il quale è precluso in appello il ribaltamento di una sentenza di assoluzione emessa senza aversi rinnovazione, anche d’ufficio, dell’istruttoria dibattimentale da porsi in essere attraverso l’esame dei soggetti che avessero reso dichiarazioni ritenute decisive ai fini del giudizio sui fatti del processo. Neppure era in questione il fatto che la declaratoria di penale responsabilità dell’imputato pronunciata in grado di appello integrasse il vizio di motivazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e) del codice di rito, tutte le volte in cui non ci fosse stata la summenzionata rinnovazione e questo in ossequio al principio del ragionevole dubbio.
Il contrasto si sostanziava in due opposti orientamenti e concerneva la trasposizione di tali principi dal processo ordinario al rito alternativo del giudizio abbreviato non condizionato.
Il primo orientamento affermava il generale obbligo di rinnovazione istruttoria, delineato con principale riguardo all’appello seguente a giudizio dibattimentale; tale obbligo doveva trovare spazio anche a fronte dell’impugnazione da parte del Pubblico Ministero avverso una sentenza assolutoria pronunciata a seguito di giudizio abbreviato, laddove questa fosse fondata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive dal primo Giudice e il cui valore era stato, per l’appunto, messo in discussione dalla Procura.
In tale caso, sempre secondo il primo orientamento, il Collegio di secondo grado deve porre in essere i poteri di integrazione probatoria adottabili anche nel rito alternativo, essendo irrilevante che gli apporti dichiarativi siano confluiti nel fascicolo a seguito di atti di indagine ovvero a seguito di integrazione probatoria a norma degli artt. 438, comma 5 o 441, comma 5 c.p.p.
Contra, si proponeva altra argomentazione che propugnava il fatto che il Giudice dell’appello non fosse affatto tenuto alla rinnovazione dell’istruzione, qualora il processo si fosse svolto con rito abbreviato non condizionato.
Il principale ragionamento si basava sulla considerazione relativa all’assoluta alterità e diversità intercorrente fra un giudizio alternativo quale un rito abbreviato e un giudizio ordinario caratterizzato dal dibattimento, ciò che rendeva bensì l’obbligo di rinnovazione in sede di processo ordinario (del resto la norma è intitolata alla rinnovazione dibattimentale, il che avrebbe espresso piuttosto chiaramente l’intento del legislatore di differenziare i due procedimenti nelle possibili conseguenze in sede di secondo grado di giudizio), ma non altrettanto nel rito alternativo semplice.
Oltre a ciò, si osservava come il dovere di riascolto in contraddittorio del dichiarante, sintonico con le forme del processo abbreviato, doveva ritenersi dissonante rispetto all’abbreviato non condizionato: appariva illogico obbligare il Giudice dell’appello a ricondurre nei canoni propri di un giudizio dibattimentale il rito speciale, attraverso un contatto diretto con la fonte dichiarativa che il G.U.P. non aveva avuto, in forza dell’opzione esercitata proprio dalla difesa.
In aperto ossequio al canone “oltre il ragionevole dubbio”, è stato sancito e rimane fermo il principio per il quale si deve ritenere affetta dal vizio di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e) una sentenza di appello che, in riforma di una pronuncia assolutoria di primo grado in sede di rito abbreviato, abbia affermato la penale responsabilità dell’imputato valutando in modo opposto al primo Giudice alcune prove dichiarative considerate decisive, omettendo di procedere all’esame della persona (o delle persone) che abbia (o abbiano) reso tali dichiarazioni.
L’avvenuta costituzionalizzazione del ‘giusto processo’ induce a ritenere il giudizio di secondo grado che ribalti una sentenza di assoluzione alla stregua di un giudizio “nuovo”, nel quale il dubbio sull’innocenza dell’imputato può essere superato solo impiegando il metodo migliore per la formazione della prova.
Tale esigenza non può lasciare il passo a una pretesa esigenza di automatica simmetria operativa tra primo e secondo grado di giudizio, in quanto lo scopo dello stesso, sia esso ordinario ovvero alternativo, è per l’appunto il superamento di quel dubbio. Si impone, cioè, la riassunzione di prove decisive impiegando il metodo che, incontestabilmente, è da ritenersi il migliore per la formazione a la valutazione della prova, caratterizzato dall’oralità e dall’immediatezza, attraverso l’apprezzamento diretto degli apporti probatori dichiarativi.
In definitiva, il solco tracciato dalla Corte della legittimità afferma come un accertamento meramente cartolare in grado di appello, a seguito di impugnazione del Pubblico Ministero di una sentenza di proscioglimento è da ritenersi incompatibile con il superamento del ragionevole dubbio, posto che una condanna non avvalorata dall’oralità nell’acquisizione della base probatoria confligge con la presunzione di non colpevolezza di cui all’articolo 27 della Carta Costituzionale.