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Abrogare il reato di abuso d’ufficio viola la convenzione ONU di Merida?

ABROGARE IL REATO DI ABUSO D’UFFICIO VIOLA LA CONVENZIONE ONU DI MERIDA?

A seguito di ricorso presentato dal difensore di un imputato condannato dalla Corte territoriale per violazione dell’articolo 323 del codice penale, successivamente abrogato, la sezione sesta della Corte di Cassazione dubita della legittimità costituzionale dell’art. 1, co 1, lett. b) della L. 114/2024 (portante il titolo ‘Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare’), che ha abrogato il reato di abuso d’ufficio, in relazione agli artt. 1, 7 co 4, 19 e 65 co 1, della Convenzione dell’ONU contro la corruzione, ratificata dal nostro Paese con la L. 116/2009.

Premettendo come la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 37 del 2019, abbia statuito l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale riguardanti disposizioni abrogative di una esistente incriminazione e che portino al ripristino della norma abrogata, sussistendo il principio posto dall’art. 25 della Carta Costituzionale che riserva al solo legislatore la definizione dell’area di ciò che è penalmente rilevante, osservava peraltro come nella medesima sentenza si trovasse una particolare eccezione: la necessità di evitare la creazione di ‘zone franche’, sottratte al controllo di legittimità costituzionale.

Ciò si darebbe nei casi in cui il legislatore introducesse norme penali di favore, in violazione del principio di uguaglianza, che sottraessero irragionevolmente un numero indeterminato di comportamenti alla regola della generale rilevanza penale di una più ampia classe di condotte, ovvero prevedendo per esse un trattamento sanzionatorio più favorevole, anche questo irragionevole.

Nel caso di specie, secondo la Corte remittente, è ammissibile una verifica di costituzionalità ove si assuma la contrarietà di una disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti, che violerebbe il diritto dell’Unione Europea che l’Italia è tenuta a rispettare, in virtù degli artt. 11 e 117 della Costituzione.

Quanto alla rilevanza della questione sollevata, si richiama il principio in base al quale in proposito è sufficiente che la disposizione censurata sia applicabile al giudizio in oggetto e che un suo accoglimento possa influire sull’esercizio della funzione giurisdizionale, se non altro sotto il profilo del percorso argomentativo della decisione nel processo principale. Nel caso in oggetto, l’accoglimento dell’eccezione sollevata inciderebbe radicalmente sulla decisione dei giudici di merito, non consentendo oltre una declaratoria che il fatto non sia più previsto dalla legge come reato, comportando una declaratoria di incostituzionalità che le condotte previste dall’art. 323 c.p. siano nuovamente punibili.

La questione relativa alla Convenzione ONU di Merida, unico trattato multilaterale internazionale, giuridicamente vincolante, contro la corruzione.

A differenza di altre convenzioni contro la corruzione cui aderisce lo Stato italiano, essa considera non solo l’aspetto penale del contrasto alla corruzione, prevedendo altresì un novero di misure preventive, tese a istituire un sistema di politiche di contrasto.

La Convenzione prende in esame non solo elementari forme di corruzione, ma anche la lotta agli illeciti cosiddetti prodromici, connessi o comunque strumentali alla corruzione, quali l’appropriazione indebita da parte dei pubblici ufficiali, il millantato credito, l’abuso d’ufficio, l’illecito arricchimento, la corruzione nel settore privato, la sottrazione di beni, il riciclaggio di proventi derivati da reati, la ricettazione e l’ostacolo al buon funzionamento della giustizia.

In aggiunta e a supporto a ciò, contempla disposizioni dedicate alla cooperazione internazionali, al recupero dei beni oggetto di corruzione, all’assistenza tecnica e allo scambio di informazioni e ai meccanismi di attuazione.

In modo particolare, l’articolo 65 della Convenzione di Merida considera giuridicamente rilevante per lo Stato contraente l’obbligo di adeguarsi alle previsioni della convenzione. In questo senso, a tutela della convenzione medesima, l’introduzione del reato di abuso d’ufficio, è ritenuto livello minimale vincolante per ogni Stato aderente alla stessa; ne discende come l’obbligo di adoperarsi e mantenere determinati standard di tutela raggiunti nell’intento di prevenire la corruzione, opera non solo per le misure legislative e amministrative adottate dagli Stati membri in attuazione della Convenzione, ma anche per le misure che ciascun aderente aveva già adottato all’atto della sottoscrizione e risultavano pienamente conformi agli scopi di tutela della stessa.

Ecco quindi che l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, a opinione della Sezione remittente, avrebbe violato questo specifico obbligo, in quanto non sarebbe stata ‘compensata’ dall’adozione di meccanismi, preventivi o repressivi, penali o amministrativi volti a mantenere quello standard di efficacia ed effettività di cui sopra, nell’opera di prevenzione degli abusi funzionali, intenzionalmente posti in essere dagli agenti pubblici ai danni dei cittadini.

Invero, la fattispecie delineata dall’articolo 323 del codice penale, col suo diretto richiamo a norme extrapenali che stabiliscono obblighi di astensione dei pubblici agenti e quelle destinate a prevenire conflitti di interesse nel settore pubblico, garantiva effettività alle stesse, ponendo una regola di condotta efficace, impedendo ai pubblici ufficiali e agli incaricati di pubblico servizio di agire intenzionalmente contro l’interesse dei privati e al fine di procurarsi indebito vantaggio. L’abrogazione della norma in esame, parrebbe avere fatto cessare quella che viene chiamata “close conformity” di cui all’art. 7 della Convenzione, avente a oggetto l’onere in capo a ciascuno Stato di adottare, mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscano la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse.

Nel motivare l’invio degli atti alla Corte Costituzionale, la sezione remittente dubita della legittimità della norma abrogatrice osservando come i rimedi preventivi anticorruzione riguardino solo marginalmente i comportamenti dei singoli funzionari, senza assumere alcun effetto specifico nei confronti della singola azione illecita; quanto alla disciplina amministrativa, anch’essa ricompresa nello spirito della Convenzione di Merida, viene ritenuta frammentaria e non sempre coerente, in quanto le azioni in punto di deontologia sono difficilmente applicabili ai dirigenti di più alto livello e non operano per gli amministratori eletti.

L’intero sistema disciplinare risulta frastagliato, in quanto calibrato dal legislatore sulle specifiche funzioni e sullo statuto che disciplina la singola figura di pubblico agente; peraltro, l’attivazione dei sistemi disciplinari è rimessa all’esclusiva denuncia del privato, con tutti i limiti che ciò comporta.

Infine, dubbi vengono appalesati anche sotto il profilo di responsabilità contabile ed erariale, non essendo sufficientemente garantita una efficace e adeguata prevenzione degli abusi funzionali ai danni dei privati, poiché il sistema di responsabilità previsto è incentrato sul danno arrecato allo Stato e non è attivabile a fronte di danni patiti dal privato.