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Leasing e art. 1526 c.c.: si applica ancora ai contratti risolti prima della L. 124/2017

LEASING E ART. 1526 C.C.: SI APPLICA ANCORA AI CONTRATTI RISOLTI PRIMA DELLA L. 124/2017 

Prima dell’entrata in vigore delle nuove norme in materia di leasing, introdotte dai commi da 136 a 140 dell’unico articolo della L. 4 agosto 2017 n.124 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza), entrate in vigore il 29 agosto 2017,  era aperta la questione della nullità ex art. 1526 c.c. della clausola contrattuale contenuta in un contratto di leasing che disciplinava la risoluzione del contratto per inadempimento, nella parte in cui prevedeva a carico dell’utilizzatore il pagamento di una penale a titolo di risarcimento del danno.

Dominava quella giurisprudenza di legittimità secondo cui alla locazione finanziaria si applica la disciplina di carattere inderogabile di cui all’art. 1526 c.c. in tema di vendita con riserva della proprietà, la quale comporta, in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, la restituzione dei canoni già corrisposti ed il riconoscimento di un equo compenso in ragione dell’utilizzo dei beni, tale da remunerare il solo godimento (ex plurimis Cass. Civ. 12 luglio 2018 n.18326; Cass. Civ. 28 gennaio 2015, n.1625; Cass. Civ. 17 gennaio 2014, n.888; Cass. Civ. 12 settembre 2014, n.19272; Cass. civ., sez. III, 27/09/2011, n.19732; Cass. civ., sez. III, 10/10/2010, n.19287; Cass. civ., sez. III, 8/01/2010, n.73).

Le nuove norme introdotte dalla Legge 124/2017, che hanno eliminato la distinzione fra leasing di godimento e leasing traslativo, hanno condotto la Cassazione, in alcune recentissime sentenze degli anni 2020 e 2021, a ritenere definitivamente abbandonata la questione dell’applicabilità analogica al leasing dell’art. 1526 c.c. in caso di risoluzione del contratto per inadempimento, ma solamente per quei casi di risoluzione del contratto di leasing intervenuti successivamente alla novella e ciò in applicazione del fondamentale principio di certezza del diritto: i contratti già risolti prima della novella, dovrebbero, pertanto,  essere ancora decisi con l’applicazione analogica al leasing dell’art. 1526 c.c.

In netto contrasto però con detti principi, fissati soprattutto dalla sentenza della Cassazione Sezioni Unite 28 gennaio 2021 n. 206,  alcune recenti decisioni di alcuni Giudici di merito ritengono che, in caso di risoluzione del leasing traslativo, l’art. 1526 c.c. non deve comunque più trovare applicazione, neppure nei casi di contratti già risolti prima dell’entrata in vigore della nuova normativa, poiché la più recente giurisprudenza ha superato la vecchia distinzione tra leasing di godimento e traslativo, così abbandonando il ricorso analogico all’art. 1526 c.c.  Nel motivare le sentenze, questi Giudici, ritengono che la questione debba essere risolta alla luce della disciplina legale attuale del leasing. Non si tratterebbe di attribuire o non attribuire carattere retroattivo alla nuova disciplina portata dalla legge 124/2017, ma di fare concreta applicazione della cd interpretazione cd. storico-evolutiva, secondo cui una determinata fattispecie negoziale deve essere valutata sempre sulla base dell’ordinamento vigente, posto che l’attività ermeneutica non può che dispiegarsi “ora per allora”, ma all’attualità.

La questione è dovuta al fatto che il legislatore della novella non ha dettato una disciplina intertemporale per quei rapporti contrattuali in corso di svolgimento al momento della sua entrata in vigore. Non bisogna però confondere la categoria dei contratti di leasing stipulati prima dell’entrata in vigore della citata legge ma risolti successivamente a detta entrata (ai quali si può applicare la nuova disciplina), con la categoria dei contratti di leasing stipulati e già risolti prima di detta entrata (ai quali si deve invece applicare la vecchia disciplina).

Per i contratti già risolti al tempo dell’entrata in vigore della novella, bisogna avere riguardo allora all’insegnamento dato dalla citata sentenza della Suprema Corte, che ricorre al principio (o teoria) del c.d. “fatto compiuto”, enunciandolo come regolatore delle interferenze dello jus superveniens sui rapporti giuridici suscettibili di esservi incisi e, tra questi, quelli di durata, tra cui, per l’appunto, il contratto di leasing. Deve, quindi, ritenersi che l’applicazione della nuova legge è consentita, nei confronti di contratto di leasing finanziario concluso antecedentemente alla sua entrata in vigore (e che sia sussumibile nella fattispecie delineata dal comma 136; là dove, di norma, tale riscontro è positivo, giacchè detta fattispecie negoziale mutua morfologia e funzione del tipo dalla realtà socio-economica), allorché, ancora in corso di rapporto, non si siano ancora verificati i presupposti (legali o convenzionali) della risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore: ossia non si sia verificato, prima dell’entrata in vigore di detta legge, il fatto generatore degli effetti giuridici derivanti dalla applicazione del diritto previgente”. “Non può, dunque, la L. n. 124 del 2017 trovare applicazione per il passato, ossia per i contratti di leasing finanziario in cui si siano già verificati, prima della sua entrata in vigore, presupposti della risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore (essendo, quindi, stata proposta domanda giudiziale di risoluzione ex art. 1453 c.c. o avendo il concedente dichiarato di avvalersi della clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c.), con la conseguenza che gli effetti risolutori non potranno essere, per detti contratti, quelli disciplinati dall’art. 1, comma 138 della medesima legge (ai quali si correla, poi, il procedimento di vendita o riallocazione del bene regolato dal successivo comma 139)”.

La risoluzione per inadempimento nei contratti di leasing operata prima dell’entrata in vigore della novella, dovrà continuare ad essere disciplinata secondo i precedenti dettami giurisprudenziali. Quindi, le clausole contrattuali che attribuiscono alla società concedente il diritto di recuperare, nel caso di inadempimento dell’utilizzatore, l’intero importo del finanziamento ed in più la proprietà ed il possesso dell’immobile, attribuiscono alla società stessa vantaggi maggiori di quelli che essa aveva diritto di attendersi dalla regolare esecuzione del contratto, venendo a configurare gli estremi della penale manifestamente eccessiva. Con la conseguenza che, in caso di inadempimento dell’utilizzatore, ai sensi dell’art. 1526 c.c., norma inderogabile e applicabile in via analogica al leasing traslativo, il concedente è tenuto alla restituzione dei canoni percepiti, salvo il riconoscimento di un equo compenso, in ragione dell’utilizzo dei beni, tale da remunerare il solo godimento, senza ricomprendere anche la quota destinata al trasferimento finale di essi, oltre al risarcimento dei danni. Nel fare questa operazione, il giudice è tenuto a comparare il vantaggio che il contraente adempiente effettivamente realizza con il margine di guadagno che mirava legittimamente a conseguire dalla regolare esecuzione del contratto (Cass. 17/01/2014 n. 888; Cass. Sez. 3 13/01/2005, n. 574).

Allo stesso modo al Giudice è attribuita, per legge, anche la facoltà di ridurre l’indennità convenuta delle parti “secondo le circostanze”. In proposito le Sezioni Unite della Cassazione, hanno chiarito che il potere di riduzione ad equità, è attribuito al giudice dall’art. 1384 c.c. a tutela dell’interesse generale dell’ordinamento e può essere esercitato d’ufficio per ricondurre l’autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela (Cass. Civ., SS.UU., sentenza 13 settembre 2005, n. 18128). Tale funzione, come rileva la stessa decisione, nasce dalla necessità «di una rilettura degli istituti codicistici in senso conformativo ai precetti superiori della Costituzione, individuati nel dovere di solidarietà nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.), nell’esistenza di un principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie, da valutare insieme ai canoni generali di buona fede oggettiva e di correttezza (artt. 1175, 1337, 1359, 1366, 1375 c.c.)». In questa prospettiva, non sembra possibile espungere la considerazione della fase attuativa del rapporto ai fini della considerazione dell’interesse del creditore alla prestazione. Anche in tale fase, infatti, trovano applicazione il dovere costituzionale di solidarietà ex art. 2 Cost., il dovere di correttezza (art. 1175 c.c.) ed il dovere di buona fede (art. 1375 c.c.). Senza la considerazione di tale fase il potere del giudice di riduzione della penale potrebbe non essere in concreto idoneo a svolgere la funzione che gli è stata assegnata dal legislatore. Ciò porta a ridimensionare la portata dell’elemento letterale ed a ritenere che l’uso dell’imperfetto («aveva») sia funzionale soltanto alla identificazione in concreto dell’interesse del creditore, mentre la valutazione di manifesta eccessività è svincolata da un tale rigido riferimento temporale e può tenere conto anche delle circostanze manifestatesi durante lo svolgimento del rapporto.