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PATTO DI NON CONCORRENZA TRA DATORE DI LAVORO E DIPENDENTE: IL COMPENSO È SEMPRE DOVUTO
Recentemente la Corte di Cassazione ha affrontato il tema del patto di non concorrenza stipulato tra datore di lavoro e dipendente, attraverso un’ordinanza che ha precisato come il compenso, una volta stipulato il patto, sia sempre dovuto.
In merito alla disciplina del patto di non concorrenza con i dipendenti, la clausola inserita nel contratto di lavoro, solitamente stipulata all’assunzione, determina l’impossibilità in capo al lavoratore di esercitare mansioni simili o uguali a quelle per un determinato periodo di tempo, naturalmente dietro a un commisurato compenso. La ratio della disciplina, in tal senso, è la protezione del patrimonio aziendale, inteso come know-how, dati, processi di lavorazione, nozioni aziendalistiche, nominativi riservati della clientela e quanto altro il lavoratore possa apprendere nel corso degli anni prestati a servizio di quella determinata azienda; è chiaro, a tal punto, come il datore necessiti di proteggere questi elementi da un passaggio improvviso alla concorrenza del suo dipendente. Attraverso compenso, quindi, per un massimo di tre anni (come previsto dall’art. 2125 cc, cinque anni se invece si è dirigenti), il lavoratore si obbliga a non trovare lavoro nei termini stabiliti dal patto stesso, verosimilmente in qualunque tipo di attività che possa nuocere all’azienda. Non possono essere oggetto del patto, contrariamente, le attività completamente estranee allo specifico settore nel quale l’azienda opera: la fattispecie tutela infatti la concorrenza, che in quest’ultimo caso non sarebbe integrata.
Merita attenzione particolare il caso della condizione posta al patto di non concorrenza per la quale il datore di lavoro potrebbe recedere unilateralmente. Tale pratica, spesso, viene posta in essere per evitare di dover pagare il compenso al lavoratore una volta terminato il contratto di lavoro. Inserendo una condizione potestativa a favore del datore, questo potrebbe recedere dal patto prima della scadenza del contratto di lavoro, così da lasciare libero il dipendente di cercare qualsiasi lavoro (si pensi al caso in cui il datore si renda conto della poca convenienza del patto) ma liberandosi del peso del compenso.
Proprio sul punto è intervenuta la Cassazione di cui alle premesse, la n. 23723 dell’1.09.21. La fattispecie esaminata dalla Corte si riferiva ad un patto di non concorrenza stipulato dalle parti al momento dell’assunzione, clausola che sarebbe valsa, dietro compenso, per i due anni successivi alla cessazione del rapporto. Il patto era stato sottoposto ad una condizione potestativa a favore del datore di lavoro, che avrebbe potuto decidere unilateralmente se avvalersene o meno. La questione sorta era la seguente: il datore di lavoro aveva risolto il patto di non concorrenza sei anni prima della cessazione del lavoro, così escludendo il compenso previsto in origine per la parte lavoratrice. Quest’ultima, una volta cessato il rapporto di lavoro, cercava di ottenere comunque il compenso pattuito al momento dell’assunzione.
La Corte ha stabilito come il compenso sia sempre dovuto. Il patto di non concorrenza, secondo recenti pronunce della stessa Corte Suprema, non può essere soggetto a condizioni potestative come quella esaminata; rimettere la risoluzione della clausola all’arbitrio del datore di lavoro concreta infatti una clausola nulla per contrasto con le norme imperative. Né rileva, altresì, che la risoluzione sia avvenuta con anticipo rispetto alla cessazione del rapporto (come nel caso di specie, dove era avvenuta sei anni prima); qualsiasi compressione della libertà del lavoratore, infatti, deve prevedere l’obbligo di un corrispettivo da parte del datore, obbligo che si «cristallizza al momento della sottoscrizione del patto» e che non può venir meno a causa di una decisione arbitraria del datore di lavoro. Proprio in merito a quest’ultimo punto, sottolinea la Corte, non è condivisibile l’orientamento secondo cui la circostanza che il recesso avvenga anni prima della cessazione del rapporto di lavoro permetta al lavoratore di progettare il suo futuro lavorativo senza particolari compressioni. La ratio del compenso, infatti, è quella di bilanciare la compressione della libertà del lavoratore nella scelta del suo futuro lavorativo.
La condizione potestativa a favore del datore, quindi, deve, secondo la Corte, essere ritenuta nulla per contrasto alle norme imperative. Da ciò discendono le conclusioni individuate dalla stessa Corte: il compenso è sempre dovuto. Nel momento in cui le parti stipulano un patto di non concorrenza viene infatti a costituirsi l’obbligo in capo al datore, che sarà tenuto a compensare il lavoratore per la privazione della libertà nella scelta della propria carriera. Il lavoratore soggetto al patto, infatti, avrà dal momento della sottoscrizione l’obbligo di rifiutare offerte che possano giungere da imprese concorrenti, posto che l’eventuale violazione potrebbe comportare ingenti richieste risarcitorie. La compromissione della libertà, quindi, individua la natura del patto di non concorrenza tra datore di lavoro e dipendente e sottolinea da un lato la necessità che quest’ultimo, qualsiasi sia la durata del rapporto di lavoro o dell’obbligo di non concorrenza, riceva il compenso previsto nei termini, dall’altro nega la possibilità per il datore di inserire clausole che arbitrariamente gli concedano di recedere da detto patto.