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ELEMENTI NUOVI E SOPRAVVENUTI NELL’APPELLO CAUTELARE: IL PROBLEMA DELLA LORO SOTTOPOSIZIONE AL GIUDICE DELL’IMPUGNAZIONE
In materia di misure cautelari personali, la giurisprudenza è stata a lungo divisa da due diversi orientamenti relativamente ai poteri del Tribunale quale Giudice di appello.
Il primo ritiene che il Giudice dell’appello sia vincolato dall’effetto devolutivo dell’impugnazione, il che lo renderebbe privo di poteri istruttori funzionali a modificare la piattaforma cognitiva in riferimento alla quale è stato adottato il provvedimento restrittivo impugnato. L’orientamento opposto, nella valutazione complessiva della prognosi cautelare, attribuisce al Giudice dell’impugnazione i medesimi poteri spettanti all’Autorità che ha emesso la misura, compreso quello di decidere su elementi diversi e successivi rispetto a quelli posti alla base dell’ordinanza restrittiva.
Punto fermo, fuori da ogni discussione, è quello per il quale la cognizione del giudice d’appello cautelare è perimetrata non solo dai motivi addotti nell’atto di lagnanza, ma anche dal thema decidendum sottoposto al Giudice che ha adottato il provvedimento primigenio: ne consegue che non possono essere proposti con l’appello motivi nuovi rispetto a quelli articolati con l’istanza proposta al Giudice che procede.
In secondo luogo va ricordato come nella lettera dell’articolo 310 del codice di procedura penale, che si pone in qualche modo come alternativo alla richiesta di riesame prevista dal precedente articolo 309 (ma solo sotto il punto di vista temporale) sia configurato uno dei mezzi per l’impugnazione dei provvedimenti adottati nell’incidente cautelare. La sua qualificazione come appello deriva direttamente dai lavori preparatori del progetto preliminare al codice del 1988, che ha la medesima natura dell’appello ordinario, in quanto integra il medesimo strumento di verifica del provvedimento emesso dal Giudice precedente.
E tuttavia la sua scarna disciplina non consente di ricostruire in maniera autonoma i contorni dei poteri cognitivi attribuiti al giudice dell’appello e questo fondamentale rilievo porta a considerare largamente apprezzabile – e del resto ne è riprova la decisa svolta da parte della Corte della legittimità a favore del secondo orientamento – il punto di vista che estende la cognizione del Giudice che decide in grado di appello sulle misure cautelari.
Tale svolta risulta pienamente aderente ai limiti costituzionali imposti al sistema cautelare, a fronte del principio dell’inviolabilità della libertà personale (art. 13, I della Costituzione), riassumibili prima di tutto nel principio della presunzione di non colpevolezza (art. 27, II della Costituzione); in questo senso, è stata posta in rilievo quella che è stata definita ‘precaria stabilità’ dei provvedimenti restrittivi, dal momento che questi vengono emanati in base a una cognizione solo sommaria e allo stato degli atti, nonché a un giudizio solo probabilistico di colpevolezza.
Trattandosi di interventi ablativi della libertà personale che trovano la loro legittimazione nell’urgenza di soddisfare finalità di prevenzione di specifiche esigenze processuali o extraprocessuali distinte dalle finalità proprie della sanzione penale e che osservando come siano adottati prescindendo da un accertamento pieno e in contraddittorio degli elementi che li giustificano, appare evidente che la funzione di garanzia assolta dalla presunzione di cui sopra verrebbe irrimediabilmente compromessa dalla previsione di meccanismi di fissità e non revocabilità delle cautele qualora, nel corso della loro esecuzione, dovessero mutare le condizioni che ne hanno legittimato l’adozione.
Ne deriva che il sistema cautelare debba, in ogni caso, corrispondere alla logica del costante adeguamento dello status libertatis dell’indagato alle risultanze del procedimento. Del resto, il soddisfacimento dell’esigenza di costante rivedibilità della situazione cautelare consente altresì il rispetto del principio di ragionevole durata della restrizione della libertà personale sancito dalla Corte di Giustizia della Comunità Europea, la cui attuazione non si esaurisce nella sola predeterminazione dei limiti temporali massimi di esecuzione delle misure, la cui previsione è pure imposta dal succitato art. 13 della Carta Costituzionale.
In tale logica, appare irragionevole ritenere che al Giudice dell’appello cautelare venga preclusa la possibilità di acquisire gli elementi probatori eventualmente prodotti dalle parti a integrazione della piattaforma cognitiva che ha formato il provvedimento impugnato.
L’esigenza di garantire la sintonia tra l’intervento cautelare e la realtà sottostante, nell’ottica del costante adeguamento del primo alla seconda e della già richiamata ragionevole durata della restrizione, nel quadro argomentativo dell’orientamento più limitativo della cognizione d’appello, rende pure illogica la riattivazione in ogni caso della sequenza procedimentale prevista dall’articolo 299 del codice di rito, al fine di sottoporre a valutazione giudiziale i nova probatori, anche nel caso in cui le parti già ne dispongano al momento della celebrazione dell’appello proposto avverso un provvedimento già adottato.
Ulteriore argomento a favore dell’integrabilità della piattaforma cognitiva del giudice dell’appello cautelare deve poi essere tratto dalla disciplina dell’impugnazione dei provvedimenti applicativi delle misure cautelari interdittive avverso le quali, tramite il combinato disposto degli artt. 309 e 310 c.p.p., non è consentito all’imputato o all’indagato di proporre istanza di riesame, essendo previsto solo il rimedio dell’appello. La scelta legislativa di differenziare il regime di impugnazione delle misure interdittive risulterebbe difficilmente conciliabile col principio di ragionevolezza se si ritiene che i destinatari delle medesime non possano sottoporre al Giudice dell’impugnazione elementi diversi da quelli valutati ai fini dell’emissione del provvedimento genetico, solo perché, a differenza di quanto stabilito dal nono comma dell’articolo 309, l’art. 310 non prevede espressamente tale facoltà.
Posto che anche le cautele interdittive incidono sulla libertà dell’individuo, si verrebbe a creare un’ingiustificata disparità di trattamento, tanto più considerando che al destinatario di un provvedimento di sequestro, il quale subisce la compressione di un bene di rango inferiore alla libertà personale quale il diritto di proprietà, è invece consentito dall’art. 322 c.p.p. di proporre istanza di riesame e, dunque, di integrare in quella sede la base conoscitiva del Giudice dell’impugnazione.
Appare, perciò, costituzionalmente orientato l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale anche in assenza di una specifica previsione normativa in tal senso, nel procedimento conseguente all’appello proposto avverso un provvedimento dottato ai sensi dell’art. 299 del codice di rito, sia legittima la produzione di documentazione relativa a elementi probatori ‘nuovi’ nei limiti e con le modalità che derivano dalla struttura e dalla funzione del mezzo di impugnazione. Ciò significa che la nuova produzione non dovrà esorbitare dai confini segnati dal devolutum, ossia dal perimetro tracciato dai motivi di lagnanza e dall’oggetto della domanda originariamente proposta al Giudice che procede.
In altre e definitive parole, gli elementi di cui è ammissibile la produzione devono risultare pertinenti al tema originariamente proposto al Giudice procedente e ai punti della sua decisione effettivamente devoluti con i motivi di impugnazione.