Home   Articoli   Diritto Finanziario   L’opposizione ex art. 195 T.U.F. contro il provvedimento sanzionatorio della Banca d’Italia o della CONSOB nei confronti degli esponenti finanziari

L’opposizione ex art. 195 T.U.F. contro il provvedimento sanzionatorio della Banca d’Italia o della CONSOB nei confronti degli esponenti finanziari

Parere reso a privato

L’OPPOSIZIONE EX ART. 195 T.U.F. CONTRO IL PROVVEDIMENTO SANZIONATORIO DELLA BANCA D’ITALIA O DELLA CONSOB NEI CONFRONTI DEGLI ESPONENTI FINANZIARI

L’opposizione contro il provvedimento sanzionatorio della Banca d’Italia o della CONSOB nei confronti degli esponenti finanziari per linee gestionali e comportamentali non rispettose delle regole di prudenza, correttezza e trasparenza di cui all’art. 195 4° comma e ss. T.U.F. è un giudizio su un rapporto giuridico obbligatorio che vede come creditore lo Stato-amministrazione e non anche un giudizio di accertamento negativo sulla legittimità dell’atto amministrativo e neppure, con una visione accentuatamente penalistica, sulla pretesa punitiva dello Stato. Scopo dell’opposizione è quello, più vasto, di accertare la sussistenza degli elementi costitutivi dell’illecito e della pretesa sanzionatoria dell’autorità irrogante.

Nel procedimento di opposizione al provvedimento irrogativo di una sanzione amministrativa pecuniaria l’amministrazione, pur essendo formalmente convenuta in giudizio, assume, quindi, sostanzialmente la veste di attrice e spetta, quindi, ad essa, ai sensi dell’art. 2697 c.c., fornire la prova dell’esistenza degli elementi di fatto integranti la violazione contestata e della loro riferibilità all’intimato. Sebbene la prova della condotta illecita debba esser fornita dall’amministrazione, essa, peraltro, può sempre essere desunta anche da semplici presunzioni, come più volte statuito dalla Corte Suprema, che suole ravvisare con ampiezza presunzioni lecite in ordine alla prova dell’elemento oggettivo della condotta.

Compete invece sempre all’opponente, che assume formalmente la veste di convenuto, la prova dei fatti impeditivi o estintivi. Le Sezioni Unite, infatti, da tempo hanno affermato che spetta a colui che ha trasgredito la norma dimostrare di aver agito senza colpa o dolo, con riguardo all’illecito amministrativo in generale: “l’art. 3 l. 24 novembre 181 n. 689, modellato sull’art. 52, 4°comma, c.p., per le violazioni colpite da sanzione amministrativa è richiesta la coscienza e volontà della condotta attiva e omissiva, sia essa dolosa e colposa, ed il principio deve essere inteso nel senso della sufficienza dei suddetti estremi, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa, nel senso che dalla norma si desume altresì una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, incombendo a questi l’onere di provare di aver agito senza colpa”.

Dal punto di vista dell’accertamento processuale, pertanto, la mancanza in rerum natura di un’azione che rechi i segnali dell’atteggiamento colpevole permette al giudice di limitarsi ad individuare l’autore imputabile dell’inosservanza, non esistendo poi una condotta da verificarsi come modalmente dolosa o colposa. Il giudizio di colpevolezza è c.d. normativo, inteso come verifica della mancanza di elementi di inesigibilità e della valutazione normativa del processo motivazionale, così che, di fronte ad autori “normali” che agiscono in situazioni “normali”, si può supporre la rimproverabilità; in tal modo, constatata la suitas della condotta, anche l’esito condannatorio segue, qualora possano, peraltro, escludersi circostanze anomale che abbiano reso incolpevole il contegno trasgressivo e, dunque, inesigibile quello osservante. Il giudizio di colpevolezza colposa è ancorato, cioè, a parametri normativi e dunque esterni al dato puramente psicologico.

Ecco spiegata la presunzione di colpa, con conseguente inversione dell’onere probatorio: sarà lo stesso autore “normale”, e dunque presuntivamente colpevole, che dovrà allegare quelle circostanze “anomale” che ne possono avere escluso la rimproverabilità, perché non sarà chiamato ad impossibilia. Si è osservato ancora come l’omissione di vigilanza sia ontologicamente incompatibile con l’effettiva rappresentazione degli illeciti da impedire, mentre è perfettamente compatibile con la loro rappresentabilità e, dunque, con la colpa: l’inosservanza dei doveri di informazione varrà, quindi, a radicare un rimprovero colposo, laddove seguano illeciti del delegato. Non occorre, per la sussistenza dell’illecito amministrativo di omessa vigilanza, la prova che il “garante primario” in effetti conoscesse l’attività posta in essere dai “garanti secondari”, ma basta che potesse conoscerla: e tale possibilità di conoscenza si presume, salva la prova di fatti impedienti.