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IL DANNO LUNGO LATENTE DA EMOTRASFUSIONE
Con la sentenza n. 25887/2022 la Corte di Cassazione ha richiamato la nozione di danno biologico con riferimento al risarcimento dei danni e, in particolare, al danno c.d. “lungo latente”, vale a dire quello manifestatosi in un momento temporale successivo rispetto al fatto illecito. In particolare, la Corte ha stabilito come il risarcimento del danno debba calcolarsi proprio dal momento in cui si manifesta la conseguenza dannosa, non potendosi parlare, sino a quel momento, di alcuna perdita ai sensi dell’art. 1223 c.c.
Il caso, in particolare, vedeva il ricorrente lamentare il danno da emotrasfusione per i sintomi dell’epatite B circa vent’anni dopo una emotrasfusione ospedaliera praticata non correttamente. Chiedeva, pertanto, che il risarcimento del danno da epatite B fosse calcolato a partire proprio dal momento in cui era stato posto in essere il fatto illecito.
La Corte, argomentando, riconosce come in tema di stima del danno occorra considerare come nel danno lungo latente il nesso tra fatto lesivo e conseguenze pregiudizievoli sia diacronico, per cui venga esternalizzato dopo un certo periodo di tempo rispetto al compimento del fatto illecito. Inoltre, ciò che rileva ai fini della quantificazione del danno da risarcimento è il fatto che fino a che l’agente patogeno non si manifesta, non si realizza alcun danno risarcibile, in quanto solo e soltanto il danno conseguenza costituisce parametro di determinazione del danno ingiusto.
Si deve infatti ricordare la definizione stessa data dalla giurisprudenza di danno biologico, inteso non come semplice lesione dell’integrità psicofisica, ma come conseguenza del pregiudizio stesso sul modo di essere della persona. Se misurato percentualmente il danno biologico consta nella menomazione all’integrità psicofisica della persona, la quale esplica un’incidenza negativa sulle attività ordinarie intese come aspetti dinamico-relazionali comuni a tutti. Ai fini del risarcimento, quindi, non basta l’identificazione di una conseguenza dannosa, ma devono palesarsi come effetti le compromissioni di una o più abilità della vittima nello svolgimento delle attività quotidiane, vale a dire il fare, l’essere e l’apparire. Contrariamente, risarcendo un danno nell’immediato seguito del fatto illecito pur verificandosi gli effetti pregiudizievoli in un secondo momento, si consentirebbe il risarcimento di un danno in re ipsa, cioè in astratto e non in concreto; inoltre, si andrebbe a considerare un accertamento del nesso causale tra condotta ed evento senza alcuna indagine sulla necessaria causalità giuridica tra evento e conseguenze dannose, necessaria ai sensi dell’art. 1223 c.c.
Si verrebbe, in pratica, a non considerare l’aspetto fondamentale del danno: la perdita. Senza la perdita, che sia patrimoniale o d’altro tipo, il danno biologico non sarebbe risarcibile, posto che la sola conoscenza del fatto illecito, senza alcuna perdita in concreto, potrebbe soltanto dar luogo a quello che la giurisprudenza definisce come danno morale, inteso come sofferenza interiore della vittima.
Ai fini della risarcibilità del danno lungo latente, quindi, dovrà considerarsi il momento dell’esternalizzazione della conseguenza dannosa come parametro di riferimento per la stima del risarcimento.
Questa la massima: «Il danno biologico non consiste nella semplice lesione dell’integrità psicofisica in sé e per sé considerata, bensì nelle conseguenze pregiudizievoli per la persona, sicché, in mancanza di dette conseguenze, difetta un danno risarcibile, altrimenti configurandosi un danno “in re ipsa”, privo di accertamento sul nesso di causalità giuridica (necessario ex art. 1223 c.c.) tra evento ed effetti dannosi; ne consegue che, in caso di danno c.d. lungo latente (nella specie, contrazione di epatite B, asintomatica per più di venti anni, derivante da trasfusione), il risarcimento deve essere liquidato solo con riferimento al momento di manifestazione dei sintomi e non dalla contrazione dell’infezione.»